RIGOLETTO, ALL’ACCADEMIA DEL CANTO

Una bella edizione soprattutto per le voci dei protagonisti. La regia troppo convenzionale ridimensiona la Tragedia

Oggi non ci si può aspettare che il pubblico vada a teatro per vedere Rigoletto di Giuseppe Verdi e guardi l’ostentata deformità del protagonista che si impone in proscenio, mostrando attività deambulatorie stucchevoli e forzate.

Per fortuna questo non è avvenuto, solo Tito Gobbi poteva permettersi di padroneggiare con l’eccelsa arte scenica e del Canto, con piglio attoriale mai più veduto in questo secolo e in quello passato. Il Rigoletto di George Petean, baritono di rara classe e dalla poderosa tecnica, amministra il personaggio in chiave moderna. È l’emarginato, il negletto, al quale si richiede tutto e niente, pur di riempire i fasti di una società fortemente decadente, dove la figura del Duca di Mantova di Saimir Pirgu, appare insopportabilmente “stupida”, contrapposta alla profondità dei sentimenti espressi dal protagonista e dalla cristallina bellezza belcantistica della Gilda di Patrizia Ciofi, che ha entusiasmato gli spettatori.

Non si comprende come mai la regia, alquanto datata e molto poco affascinante di Mario Pontiggia, non assecondi la bellezza delle voci e della recitazione, che sembrano detestare il contesto tradizionale di scene e costumi.

Rigoletto nell’interpretazione di Petean è un novello Quasimodo di “Notre Dame de Paris” di Hugo, ma riscritto, capovolto, senza orpelli, con la chioma fluente che sfugge al vento di tempesta e che porta la mano sul cranio traendo forza nelle parti dolosamente drammatiche.

I tic di Rigoletto non sono i ritriti schemi di una sola fisicità deforme e la gobba rappresenta un elemento/zavorra, simbolo dell’impedimento del protagonista di amare persino sua figlia, che per uno schema alquanto contorto, morirà anche per mano sua. Come dire che vi è una palese difformità tra i “moti” della recitazione e del canto dei protagonisti e la regia che contiene, neutralizzandola, la drammatica sequenza della Storia. Solo pensare alla orrenda staticità inespressiva di Marullo, fa venire la pelle d’oca. Oltre a Pirgu, che canta bene anche se gigioneggia troppo, ci ha sorpreso positivamente la bella interpretazione della Maddalena di Nino Surguladze.

La sequenza del temporale, acme della tragedia verdiana, ci ha lasciato sgomenti, con le luci che giravano dal proscenio fino alla zona interna del palco, come le giostrine dei trenini del Luna Park, toglievano ancor di più pathos al dramma.

Il Direttore Pier Giorgio Morandi ci consegna una lettura dello spartito verdiano di grande intensità avendo assoluto rispetto delle voci, l’orchestra del Teatro di San Carlo, (noi abbiamo sentito la seconda recita), si impone come tra le migliori orchestre italiane. Il coro come sempre è ben diretto da Marco Faelli.

Spettacolo comunque consigliato

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