NABUCCO E IL FANTASMA DELLA CALLAS

Solo il coro svetta in una serata in tono minore per le voci

Nabucco è Opera difficile per Giuseppe Verdi, rappresenta la ripresa della linfa musicale e vitale del grande Maestro, dopo i lutti per la morte della moglie e di due figli.
Il Teatro di San Carlo, per la seconda recita del 12 ottobre, era stracolmo e il popolo turistico vacanziero, ma non solo, aspettava con crescente emozione il famoso “va, pensiero, sull’ali dorate”.
Io stesso con alcuni amici eravamo stipati fino all’inverosimile, come sardine salate, nei palchetti di terza fila, ci era concesso solo l’ascolto e la visione di un terzo del palcoscenico, ma fortunatamente non per molto poiché ad un certo punto ci ha favorito la sorte donandoci un balconcino migliore.
Mi ha colpito molto favorevolmente la veemenza ritmica del direttore d’orchestra Francesco Ivan Ciampa, a scapito però di una lettura approssimativa della difficilissima “congiunzione” con le voci (Nabucco, Giovanni Meoni, Ismaele, Marco Miglietta, Zaccaria, Rafal Siwek, Abigaille, Susanna Branchini, Fenena, Rossana Rinaldi e Breda, Ceron Mastrobuono), che alcune volte cantavano arie o duetti con sufficienza, chiusi in una fissità recitativa e del canto, che dilatava oltremisura l’alto spirito della tragedia.
Certo questo è dovuto anche alla regia di Jean-Paul Scarpitta che delineava, in spazi forzatamente angusti, segnati con quinte carrellate e luci chiaroscurali,  l’azione dei protagonisti e del coro stesso.
Insomma un’esangue e anemica lettura dell’Opera, scelta ossimorica rispetto alla veemenza e al tratto “rivoluzionario” del Dramma e quindi del bellissimo libretto di Temistocle Solera.
 Devitalizzare Verdi è grosso azzardo, solo i costumi di Maurizio Millenotti riescono a dare quella zampata “estetica” che occorre per narrare Babilonia e il popolo ebraico.
Si può e si deve parlare delle voci, ma soprattutto quella che più di tutte rappresenta per il melodramma momenti di sublime ascolto: Abigaille, cantata da Susanna Branchini.
Purtroppo la difficoltà del canto di soprano drammatico di coloratura (agilità) risulta per la Branchini di grande difficoltà.
C’è un ascolto della Callas del 1949, che ci fa comprendere come questa vocalità sia impervia ed abbia la necessità di una “formazione” belcantistica, ma anche una “tornitura” dei recitativi senza cadere mai nell’impatto funesto di un “verismo” interpretativo del tutto fuori parte e luogo.
Evidenti problemi nel celeberrimo “Ben io t’invenni” e a seguire “salgo già del trono aurato”, impone qualità tecniche rilevanti, pianissimi, trilli, sovracuti da emettere con voce poderosa e piena, salti di ottava, insomma un massacro per una voce come quella della Branchini che sicuramente potrà cantare altri ruoli, poiché si sente che ha voce ed anche un colore raro a trovarsi, ma Abigaille è altra cosa.
Imponente la voce del baritono Giovanni Meoni, nel ruolo del titolo, è anche attore dolente e drammatico, con un solo difetto nell’emissione degli acuti, che alcune volte risultavano sfocati.
Per le rimanenti voci è da evidenziare positivamente l’Ismaele di Marco Miglietta (che ricordava nel registro acuto GiuseppeMorino) e lo Zaccaria di Rafal Siwek.
Chi mi legge conosce la considerazione che ho da sempre nutrito per il coro del Teatro di San Carlo, ma l’altra sera lo stupore si è condensato in lacrime: ogni intervento di questi maestri del “cantare bene”, per questa Opera che di fatto ha come protagonista le masse del coro, ha innalzato la qualità dell’ascolto più di ogni altra vicenda veduta e sentita la sera del 12 ottobre e il bis non è mancato nella celeberrima preghiera.
Bravi!
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