L’Elisabetta di Rossini ritrova il suo trono aureo al Massimo di Palermo

Ancora mille peripezie per giungere a Palermo. Non prendo aerei,  difficilmente auto,      ( giro da anni con bike elettrica ),  adoro treni e navi, miei sicuri porti dell’anima che girovaga per l’Italia e talvolta per l’Europa. Ma come rinunciare a Rossini, questo compositore che fa fibrillare tutte le molecole del nostro sangue.

Giunto in nave, dopo una notte tra stelle e astri su un mare d’olio nero che s’alternava a candidi spruzzi della prua ferrosa, mi reco immediatamente, sotto un cielo plumbeo, nell’immenso casermone tra il neoclassico e il liberty del teatro Massimo, pregiata opera dei Basile (padre e figlio ).

Osservo la maestosa bellezza e spazialità delle forme, ma anche la obliata decadenza di certi androni o stucchi, che necessitano un sicuro restauro.

La sera avanza e finalmente la bacchetta del Direttore Antonino Fogliani irrompe nell’assoluto silenzio della sala. Riecheggiano clamorosi autoimprestiti, questa è  la drammaturgia musicale del pesarese, lega ed evolve come catene infinite i suoi geniali tesori compositivi, come l’Aureliano in Palmira del 1813 o il successivo Barbiere di Siviglia del 1816.

L’Elisabetta è un’opera “manifesto” per l’innovativo tessuto musicale che vi ritroviamo. Magnifici sono i lunghi recitativi accompagnati che si alternano a momenti di intenso portato drammatico. Rossini inizia a Napoli una rivoluzione musicale e l’Elisabetta è la sua prima pietra di paragone!

Molto creativa e per nulla sul solco della tradizione la regia di Davide Livermore, si contrappone decisamente al precedente storico nello stesso teatro  del Maestro Mauro Bolognini, che aveva le belle scene ed i costumi di Gaetano Pompa nel lontano 1971 e per protagonista una magnifica Leyla Gencer.

Livermore ha molto osato ed ha creato un contenitore visivo  e di videodesign ( D-Wok) di estremo impatto emotivo. Arie, cavatine, terzetti, coro, concertati sono accompagnati da enormi “spruzzi di seppia” che ondeggiano tra le agilità e colorature degli interpreti su un enorme schermo cromatico. Le belle luci di Nicolas Bovey, in estesa esemplare connessione psicologica con i personaggi, svegliano la scena anche quando questa risulta particolarmente impegnativa. Una sorta di carillon luce/suono, che già avevamo visto al Rossini Opera Festival e che qui, al Massimo, sembra ancor più bello. Molto eleganti i costumi di Gianluca Falaschi pieni si solida luce tessutale.

La parte di Elisabetta fu scritta per la futura moglie di Rossini, Isabella Colbran, voce mitica del melodramma del primo ottocento. Elisabetta è ruolo di estrema difficoltà ed ha necessità di voce educata al canto rossiniano. Gli ascolti della Gencer o della Caballè ci danno molti indizi su come affrontare, in maniera diversa ma compatibile, una parte che oggi vede  Nino Machaidze protagonista a Palermo.

La cavatina d’entrata di Elisabetta è prova del  fuoco per la Machaidze  poichè deve spaziare su una tessitura che tenga bene i centri sonori per poi dare spinte verso  acuti tenuti, oltre a gareggiare ( a voce ancora fredda ) sulle impervie agilità nel registro medio/alto. La Machaidze sfodera tutto l’armamentario del belcanto rossiniano, imponendo giusti fiati e fraseggi nel Quant’è grato all’alma mia”. Impeccabile nei tempi con l’orchestra, diretta da Antonino Fogliani musicista straordinariamente rigoroso e brillante, Maestro eccellente nel tenere coro e solisti in un “unicum” sonoro pregevole e ancor prezioso.

La Machaidze  costruisce un personaggio ben equilibrato con un  physique du rôle ineguagliabile.

Struggente il duetto  Elisabetta/Matilde con una stupefacente Salome Jicia che innalza ancor di più la “suspense” del canto vocalizzato, e non solo,  regalandoci delle vere e appropriate sublimi prove di come si canta Rossini!

Il Leicester di Enea Scala mostra una passionalità furente, la sua è decisamente una prestazione ai limiti del possibile. Il canto di Scala non risparmia nemmeno una nota scritta o una cadenza, così come voleva Rossini per questo ruolo che rasenta il registro baritenorile. Meravigliosa l’interpretazione  di Scala nella scena e aria “Della cieca fortuna“.

Ruzil Gatin ha interpretato il ruolo di Norfolc in crescendo, trovando la massima lucentezza vocale nella bellissima cabaletta  del secondo atto “Vendicar saprò l’offesa“; bellissime le agilità e le colorature, con puntate sui  sovracuti impressionanti, il pubblico è scoppiato nell’applauso tra i più lunghi della serata.

Di bella prestazione le voci di Rosa Bove ( Enrico) e Francesco Lucii ( Guglielmo )

Molto bene il coro, per colore e tempi, diretti dal Maestro Salvatore Punturo.

Applausi scroscianti per la sera della prima del 22 ottobre 2024

 

Pino De Stasio

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