LA FANCIULLA DEL WEST TRA CIME TEMPESTOSE E KURT WEILL

Un Puccini maestro del ‘900 riscrive il melodramma italiano

Lo dico subito: ero prevenuto. Da accanito ascoltatore per la musica barocca e dei primi dell’800, sono andato nel magnifico Teatro di San Carlo per assistere alla ‘terza’ della Fanciulla del West di Giacomo Puccini.

Avevo ascoltato tempo fa degli estratti sonori con Domingo, Del Monaco, Pons e la Tebaldi (quest’ultima raccomandata da mio padre Antonio, giovane barista del massimo partenopeo negli anni ’50, il quale serviva alla giunonica voce d’angelo, prima d’ogni recita, delle tisane calde), ma mai l’opera intera. Sentivo una mancanza, un’incompiutezza, da frequentatore di Opera. Quello che mi ha colpito immediatamente ,appena alzato il sipario, è stata la regia di Hugo DeAna, che “capillarizza” il libretto di Civinini e Zangarini, libretto che ha avuto un parto di quasi quattro anni, poiché rappresentato a New York nel 1910, sotto la direzione di Arturo Toscanini, con protagonista Enrico Caruso, e ispirato al dramma di David Belasco “The girl of the golden west”.

In proscenio appaiono con il bravo Claudio Sgura, che interpreta la parte dello sceriffo Jack Rance, una serie di pellicole degli anni ’20-’30, che riportano citazioni di titoli dell’âge d’or del cinema americano. Lo strappo immediato da parte dello sceriffo di questa enorme tela variopinta ci catapulta a metà ‘800 nella profonda California, dove migliaia di cercatori d’oro programmavano campi di lavoro e brigate organizzate.

Setacciare centinaia di kilometri sotto il sole rovente, che è presente in scene iperrealiste che , anche se distaccate, fanno emergere la dolenza e la distruzione dei corpi maschili, provati dalle dure fatiche della “recherche” del prezioso metallo, che sulla scena, insieme al coro, diventano statiche ombre.

Anche la musica si fa via via più drammatica, ricomponendosi sempre in variabilissime sonorità popolari e recitativi, che stupiscono per la loro asciutta composizione e che anticipano, meravigliandoci, quella che ritroveremo nella musica di Kurt Weill.

E’ il secondo atto che esprime tutta la viva tragicità dei sentimenti, e scopriremo qui i due protagonisti amanti: Minnie, interpretata dalla brava Emily Magee, e di Dick Johnson, cantato e recitato dal convincente Roberto Aronica.

Puccini riscrive nuovi “modi“ per il melodramma italiano, con sonorità sinfoniche che ricordano Mahler, struggenti , ma anche con tinte veriste. Un Puccini sperimentatore e che osa soprattutto nel ritmo orchestrale e nei tempi. Il regista,che cura anche i costumi e le scenografie, nel secondo atto amplia la propria visionarietà con la tecnica del cinema nel teatro.

L’enorme e copiosa neve elettronica, che dall’enorme schermo panoramico si proietta sulla scena naturalistica, si unisce a piccole carte argentate artigianali che cadono dal soffitto del teatro. Un secondo atto che ci ricorda per la tragica dinamica della recitazione dei protagonisti “Cime tempestose” di Emily Brontë.

Il coro, gli attori, i comprimari eseguono nel terzo atto una delle scene più belle del melodramma del ‘900: Minnie salva il suo amato Dick, abile ladrone dei tesori altrui, in quanto innamorato e pentito della sua condizione di negletto dal mondo,tutti sono protagonisti, vi e’ una Unità musicale che colpisce i sentimenti ed il cuore.

L’orchestra del Teatro di San Carlo, diretto dal sempre più bravo M° Juraj Valčuha, sfavilla in maturità e ricchezza timbrica. Il coro, diretto dal M° Marco Faelli, esalta ancor di più soprattutto laddove il dramma si fa “sangue”. Dispiace evidenziare, al di là di quanto detto finora, ciò che è accaduto alcuni giorni fa nel nostro massimo partenopeo, e cioè la scelta di fittare la “Sala degli Specchi” per compleanni o anniversari, con annessi Dj, casse sonore e laser variopinti. Il Teatro di San Carlo deve essere salvaguardato, ma forse ancor più rispettato, fosse anche solo per la storia che esso rappresenta da quasi 300 anni

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